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XXVIII. Delli suoi corpi allora vestirai. Li quai subitamente in un momento Risorgeranno al suono della tromba

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Per rendere ragion del lor talento (39). XXIX. Or fa Signore, che della mia tomba Io esca fuora, non oscuro, e greve; Ma puro, come semplice colomba. A ciò ch' io essendo allora chiaro, e lieve; Possa venire ad abitar quel loco,

Che li tuoi figli, e servitor riceve : Dov'è diletto, e sempiterno giuoco (40).

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(1) Per le tentazioni de' suoi Nimici altrove già detti, i quali sollicitandolo a peccare, il mettevono però in grandissimo affanno, timoroso che Dio non lo lasciasse cadere in esse. (2) Al mio desiderio.

(3) Non vuol quì dire, che sia egli ridotto senza avvedersene all'estrema vecchiaja; ma vuol dire, che per lo gran rammarico d' aver Dio offeso, i giorni, e gli anni suoi gli si sono presto consumati; e si è per così dire accelerato il fin della vita.

(4) Ciò è in fatti, che vuol esprimere la Volgata. Perciocchè la voce latina, Cremium", è, secondo che afferma Columella, quella minuta materia arida, e secca: che per esser cosi atta a brugiarsi, da' Latini Cremium è appellata da Cremare; e volgarmente Brusaglia; onde bene l' Interprete: Gli ossi miei son secchi, e pien di danni, cioè spogliati di vigore, estenuati, scarnati.

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(5) Mette la Parte per lo Tutto cioè il Cuore per lo Corpo: volendo dire, che il suo Corpo è dimagrato, e ridotto a macie.

(6) Per cagione del mio gran dolore mi son fino dimendicato di prendere il solito cibo.

(7) Perchè pareva al Santo Re, che Dio avesse, incollerito, per lui chiusi gli orecchj ; e che nol volesse esaudire.

(8) Due fatte di Pellicani ci ha, scriveva S. Girolamo. L' una è di quelli, che dimorano su l' alte rupi, e vivono di serpenti. Di questa fatta molte proprietà raccontan gli Antichi,

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che hanno potuto a molti Predicatori, ed In terpreti servire assai Bene, per ispiegare i lor divoti pensieri, e riflessi; ma le quali in oggi passano appo moderni Storici della Natura per favole. L'altra sorta è di que' Pellicani, che dimorano alle rive dell' acque, e si nutriscon di pesce, i quali con altro nome erano da gli Scrittori appellati Cigni. Di questa seconda sorta è, che parla il Salmista com'è manifesto dalla voce Ebraica Kaath, che significa un volatile che vive di pesci. E Dante volendo apertamente ciò dimostrare, vi ha aggiunto a circonscriverlo, Che essendo bianco ec. perciocchè la candidezza del Cigno era come ita in proverbio appo gli Antichi. Onde Virgilio (a) chiamò Piume Cignee quelle del Re de' Ligu ri, volendo dir Candite e il Colore Cigneo si diceva comunemente da quegli per Color Bianco. A questo Augello per tanto si paragona il Profeta. Per intelligenza di che è da sapere che di questo Volatile questa favola si riferiva ab antico, la qual è, che Cicno Re de' Liguri essendo amante di Faetonte; poichè ne intese la morte, dal continuo pianto fu mutato in cosi fatto Uccellone, il quale con voce incondita, e roca, tutto che bellissimo, se ne va lontano ognora dagli abitati luoghi, dolentetemente piangendo, Però Virgilio (b) il canto di esso appello Roco e il medesimo disse l' Autor della Philomena ; spiegandone il canto

(a) Æneid. lib. 10. v. 187. Cujus olorinae surgunt de vertice pennae. (b) Ibid. lib. 11 v. 458. rauci cygni.

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colla voce, Drensant, che significa un Canto insoave; e il medesimo disse Luciano (a), scrivendo, che Gracidano disgraziatamente ec.; i quali Autori dissero molto meglio la verità di coloro, che ascrissero ad essi un Canto dolce, esoave. Ora vuol dire il Profeta, io son fatte qual Cigno, che tuttocchè appariscente e riguardevole, ja ogni modo fugge le genti; e si ritira solitarioa gemerel ee. i shoq t

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TV (9) La vocel greca, Nycticorax, vuol dire un uccel nero notturno, ed è formata da Nyx cheval Notté, e da Corax, che, val Corvo, il -quale fu così detto da Koros, che vale Nero. L'Interprete nostro, avendo, riflessione al detto significato, stimò di non poter meglio tradurre in volgare la voce Nycticorax, che usando la voce latina Vespertilio, che è lo stesso, che Nottola. E il Profeta con tal paragone dir volle, che per lo gran suo dolore non solamente fuggiva le genti; qual, Cigno, ma fuggiva per fin la luce, qual Nottola. / ole pop

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rugid(10) Perchè non può soffrire la luce per ola debolezza delle pupille.

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-60 m (41): Entra qui ad esporre al Signore Ja súa sofferenza; e dice: Le altrui persecuzioni e maldicenze sono state cagione,ch' io passassi le notti vegliando. Ciò non ostante non ho detta parolaine di amormorazione, nè di risentimento. I (12) Disega quì il Testo Ebreo quell' Angelloche appunto dagl' Italiani e nominato Passare solitario, e da Francesi Chouette, siccome scrive

(a) Crocitant hi admodum absurde, et incleganter. -Libi de Electro.

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nel suo Hierozoico il Boccart; il qual augello ha per sua natura di starsi solo in su la sommità d'una magione, o sotto un tetto, passando la notte in un flebile canto. Tal son fatt' io, dice il Profeta, che senza punto querelarmi de' miei Nimici, passo le mie veglie, consolandomi unicamente sulla speranza, che ho nel mio Dio, e nell'invocare il suo nome.

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(13) Assegna, qui il motivo, per cui gli erano molti contrari e dice, che è, perche faceva penitenza, per mortificare il fomite del peccato. In un Salmo qui avanti posto aveva generalmente ciò, detto con questa espressione: Quiq sequebar bonitatem. E questa sua penitenza era, ch' egli conoscendo la colpa sua, ne piangeva perpetuamente; mescolando la bevanda colle sue lagrime: ea mortificare la concupiscenza, che vet l'aveva fatto cadere, si umiliava profondamente, e si nudriva per così dire di cenere, Focasa Venere è poi qui detta la Concupiscenza, o Lascivia nel qual significato fu comunemente dagli antichi Latini, Terenzio (a), Virgilio (b), Seneca, ed altri, adoperata, Ne su etimologia di Venus son già da udire i Latini: ma essa è tratta dal Benoth degli Ebrei, che si legge nel quarto Libro de' Re (c), come osservò il Reinešio (d).

Lot (14) Questa è la ragione, per la quale si studiava di mortificar colla penitenza il suo ap

“Â(â) ́În Eunuch. Sine Cerere, et Baccho friget Venus.

(b) Georg. 2 Frigidus in Venerem Senior.

(c) Cap. 17. n. 36. Succoth Benoth, idest Tabernacula Veneris. A 6(d) 'De ›Ling) Pànit, cap. 8.

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